@ - Oltre i ristoranti dei grandi chef e dopo un passaggio leggiadro nei super hotel, il racconto di una Serenissima oltre i cliché, capace di una cucina vera.
“Ma che ci vai a fare a Venezia? Tutta questa passione non la capisco. Si mangia così male e davvero non vale la pena”, mi sfotticchia un eminente critico eno-gastronomico e compagno di merende in mille scorribande, tra bettole di provincia e stellati globali dalla super-cazzola 2.0. Mi diverte la tua provocazione, amico mio, ma debbo contraddirti, perché mille sono le ragioni che periodicamente mi spingono a tornare sulla Laguna. E per le quali ogni tanto dovresti venirci anche tu. Amo queste pietre umide, amo le isole e amo il mare; soffro quando mi fermo troppo a lungo in città, senza poter respirare il profumo salmastro che ci regalano Tirreno e Adriatico. Di Venezia si può dire – nel bene e nel male – ciò che si dice di Capri: il posto è spettacolare, unico, ma drammaticamente assediato dal turismo calpesta-tutto. Vale per Firenze, vale per tutti i centri ai quali la Storia ha regalato gemme rare, quando non uniche.
Eppure la bellezza alla fine trionfa, fuori stagione magari, che sia in una notte di luna piena o quando attraversi un ponte in mezzo alla nebbia così fitta che per orientarti serve il radar. E quando splende il sole, in pieno inverno basta coprirsi bene per navigare con un vecchio motoscafo che borbotta lemme lemme (attenzione agli implacabili ‘barcavelox’) lungo il Canal Grande, dove s’affollano e s’incrociano sfiorandosi al pelo cento gondole e vaporetti. Per stupirmi, il timoniere si diverte a elencare: una batela, una mascareta, un sandolo, un topo, una sanpierota o una topetta, per citare solo alcuni di un numero infinito di tipi di imbarcazioni attraverso i quali risali nei secoli, e che sfilano sull’acqua, increspata arteria urbana mobile. Altro che le strisce d’asfalto. E poi, amico mio snobettone, anche qui si trova dove mangiare bene. È vero che spesso ho la sensazione che piccoli bar e finti bacari spuntino come funghi lungo le rotte più battute dalle mandrie dei forestieri. Lo stesso fenomeno che ha investito le aree come Piazza Navona a Roma e Brera a Milano. C’è poco da scandalizzarsi se la liberalizzazione delle licenze ha consentito qualsiasi cambiamento di destinazione d’uso a qualsiasi locale, con buona pace di commerci antichi e negozi di prossimità, letteralmente spazzati via, con un cambio drammatico negli stili di vita dei residenti. La fortuna vuole che Venezia sia rimasta nel Bel Paese un’oasi cosmopolita, con la presenza di forti comunità straniere impegnate in fondazioni per la difesa dei luoghi di cultura, e di istituzioni prestigiose come le Biennali e la Mostra internazionale del Cinema.
Daniele Turco
C’è dunque chi non si rassegna e punta – quando e dove sia possibile – a difendere la qualità della tradizione. Forse il caso più clamoroso è quello dell’hotel Gritti, ospitato nel palazzo che da cinquecento anni racconta la storia e la ricchezza dei Dogi. È in assoluto l’albergo di maggiore fascino della città, dove l’atmosfera di eleganza che si respira è tale da farti dimenticare la frenesia che viviamo, e persino gli ospiti più vivaci parlano sotto voce, quasi temessero lo sguardo severo di Andrea Gritti, nel ritratto che domina il salotto dove ci si raccoglie l’inverno. Il bel tempo mi consente di sedere nella terrazza affacciata sull’acqua, il Riva Bar per un cocktail e accanto al ristorante, dove il giovane Daniele Turco ha messo in un angolo la vecchia cucina internazionale sdoganando un’offerta moderna e allegra, legata al pesce e alle verdure coltivate nelle isole della laguna. Servizio attento e disinvolto, come sanno fare i camerieri abituati a servire ospiti di rango che arrivano da ogni parte del mondo. La pandemia ha ridotto la presenza degli americani ma accresciuto quella degli italiani, con un gran numero di europei.
Per la verità non si può passeggiare senza rendere omaggio al laico tempio alcolico qual è l’Harry’s Bar, tappa irrinunciabile per i Martini (99% gin) e i Bellini. Se colti da pigrizia etilica, un risotto va assaggiato, altrimenti gambe in spalla! Rinvigoriti da un paio di cocktail, scorriamo la lista dei nostri gusti, una lista compilata con l’aiuto di un paio di amici che ben conoscono la zona e difficilmente sbagliano quando si tratta di organizzare un lungo fine settimana.
Categoria giovani: Local. Piccola sala vetro e legno, in parte affacciata su un rio. Piccolo menu per colazione. Finta prugna fatta di barbabietola per cominciare e gradevole tocco esotico con il pollo, crema di cocco e lime e pack choi, "il primo piatto pensato dallo chef Matteo per il ristorante”, reduce dai viaggi in Giappone, Thailandia e Malaisia. (Analogo tocco orientale trovammo l’anno passato da Le Chat Qui Rit, altra meta da segnalare e di cui demmo conto sulle pagine di Sapori). Delicato e piccante, funziona. Piccato invece il sommelier (gestore di una interessante carta di vini naturali), quando sommessamente faccio notare alla gentile cameriera che rispetto all’ultima visita i prezzi di alcuni vini mi sembra abbiano subito un bel ritocco. Tornerò, anche per ri-assaggiare l’allegro dolce: nel cuore si cela un biscotto avvolto dalla pellicina del latte e profumato di miele di barena.
CoVino Ristorante
Cena al Covino. Enoteca-bistrot. Come suggerisce il nome, il posto è piccolo, allegro e si sta stretti. Qua sono quattro giovani donne toste e toniche a gestire il tutto con bel piglio. Un matriarcato con una proposta eno-gastronomica spinta e interessante, che si tratti dei vini in grandissima parte naturali o dei piatti, ai quali forse gioverebbe ridurre la quantità di ingredienti. Tornerò.
Resisto ai suggerimenti di posti stellati come lo spettacolare Caffè Quadri (Alajmo Bros) e le tavole top ospitate in grandi hotel come il Glam di Palazzo Venart (firmato da Enrico Bartolini) e l’Arva dell’Aman (Norbert Niederkofler), e mi dedico ai posti mainstream. Evitando di un pelo l’acqua alta, mi attovaglio ad un tavolino giusto sull’uscio delle Antiche Carampane, una conosciutissima macchina da guerra, dove le signore che si avvicendano al servizio sono di estrema gentilezza, mescolando clientela locale e straniera. Fresche e saporite le cappelunghe (cannolicchi), deludenti i tagliolini, nei quali la delicatezza della granseola viene coperta da una inutile quantità di pomodorini. Tornerò per assaggiare i paccheri con scampi e gamberi alla ‘busara’.
Antiche Carampane
Mi consolo a cena tornando dopo una vita da Franz. La garanzia di una cucina di sereno cabotaggio, dal pesce fresco ad una cantina di tutto rispetto. Nulla è rimasto della corderia che a fine Ottocento l’austro-ungarico Franz trasformò in un’osteria, e trasformata a sua volta da Maurizio Gasparini in un'elegante super-trattoria. Meritano lo spaghetto nero con seppia cruda e l’anguilla al mattone. Tornerò, senza tanti dubbi.
Riparto col dispiacere di non aver visitato le Testiere (di cui conservo un eccellente ricordo) e soprattutto mi resta la curiosità di scoprire Osteria Giorgione da Masa, un curioso unicum: un giapponese che punta su cicheti alla nipponica.
Quanto all’amico scettico che si interrogava sulla mia meta, ripeto l’invito ad abbandonare ogni reticenza e lanciarsi in laguna, a caccia di profumi ed esperienze diverse. Nonostante il turismo, gli spunti restano davvero tanti.
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