24 giu 2018

"Il governo M5s-Lega è già un po' un regime"

Enrico Ghezzi è preoccupato: "La possibilità di esercitare il dubbio è stata compressa. La retorica del parlar chiaro lascia aperte solo due sole possibilità: dire sì, oppure dire no. È un appello all’adesione".

Il primo istinto è negare, convincersi che non sia così: "Invece, il governo del Movimento 5 stelle e della Lega può davvero arrivare a ridurre lo spazio della libertà. In potenza è un regime, e già ora lo è un po'. La possibilità di esercitare il dubbio è stata compressa. La retorica del parlar chiaro, alla quale sono fin troppo educati, lascia aperte infatti due sole possibilità: dire sì, oppure dire no. È un appello all'adesione. Alla rinuncia alle riserve. Poiché tutto ciò che non è 'sì' o 'no' è attribuito al maligno, come dice il Vangelo". Da molto tempo a suo agio con il linguaggio luciferino dei ma, dei però e di tutte le congiunzioni complici della sottigliezza, Enrico Ghezzi sarebbe subito tentato dalla divagazione: "Mi affascinano le frasi evangeliche che sfidano la predicazione buonista, come quella di Matteo: 'A chi ha, sarà dato; e a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha". Trovo seducente la possibilità che questa frase offre alle interpretazioni anche più crudeli".

Seduto alla scrivania del suo studio, Ghezzi sostiene che non ha pensato all'immagine di Matteo Salvini che giura sulle scritture sacre in campagna elettorale, sebbene sia la prima immagine che potrebbe venire in mente: "Salvini e i suoi partecipano al gioco elettorale brandendo il consenso. Impugnano i loro cavalli di battaglia come armi da puntare contro il Parlamento. Mi sembra sia molto pericolosa l'idea di considerare qualsiasi perplessità posta di fronte alle loro idee una piccola contraffazione, come suggeriscono i 5 stelle. Oppure, peggio, ritenerla un delitto. L'esercizio del dubbio è diventato già qualcosa di criminalizzabile, o quasi".

Per il suo vizio di smontare e rimontare le verità del discorso televisivo, il programma che Ghezzi ha inventato alla Rai più di venticinque anni fa, ovvero Blob, a volte è finito sotto accusa: "La televisione è sempre politica, anche quando si occupa d'altro". Quella che ha fatto lui, quando alla Rai c'era Angelo Guglielmi, e poi anche dopo, fino a oggi, è stata quella di Fuori Orario, Schegge, le 40 ore non stop di rassegna cinematografica de La magnifica ossessione: "Stiamo rischiando tutti tantissimo. È un momento delicatissimo per le democrazie nel mondo. So che sembra stia raccontando un film di fantascienza, ma se si avesse voglia di mettere insieme i pezzi di ciò che stiamo vivendo – la corsa al controllo dei dati personali, certe pulsioni (anti)politiche – si vedrebbe chiaramente che siamo in corsa corsa forsennatamente verso un punto molto pericoloso. Possono accadere cose che al momento non siamo nemmeno in grado di vedere. Senza paranoia, conviene rimanere in guardia".

Si può fare qualcosa?
"Si possono pronunciare meno sì (o meno no) ogni volta che si presenta l'occasione, non tenendo conto del fatto che un problema riguarda poche, oppure moltissime persone".

Chi rischia?
"Rischia innanzitutto chi maneggia questo meccanismo pericoloso. Si dice che il potere si detiene. Ma non è forse che da esso si è detenuti? Beppe Grillo è seduto su una polveriera. Si diverte, perché il suo cinismo è schietto. Ma i cinque stelle hanno messo in discussione il senso stesso del fare politica. Eppure, dopo le elezioni, chi è uscito più forte è un politico di razza come Matteo Salvini".

La politica è stata importante per lei?
"Sono cresciuto, alla fine degli sessanta, in un momento in cui si diceva che tutto era politica. Era politica la letteratura russa. I discorsi di Lenin. Erano politica anche le rassegne cinematografiche sui film di Totò. Solo che ogni discorso sul cinema è sempre terribilmente più antiquato di qualsiasi scena di Stanlio e Ollio, oppure di Charlie Chaplin, o dei fratelli Marx. Erano questi i miei riferimenti".

Chi la contagiò?
"Mia madre, soprattutto. Allora vivevamo sul lago d'Iseo, a Lovere. Mi portava al cinema ovunque. Finché, un giorno, mio fratello ebbe un'occlusione intestinale e rischiò di morire. Lei si spaventò così tanto che giurò che non sarebbe andata più al cinema se tutto fosse andato bene. Mi rimase un sentimento del cinema come premio o punizione".

Suo padre, invece?
"Guardava solo film western, in particolare i classici americani di John Wayne, John Ford, eccetera. Non era un esperto, ma aveva scelto bene. Diceva Wittgenstein che anche "un ingenuo e stupido film americano può insegnare qualcosa, nonostante tutta la sua scempiaggine e per mezzo di essa".

Lei cosa guardava?
"Tutto quello che potevo. Andavamo a Parigi e, in venti giorni, guardavamo almeno sessanta film. Era faticosissimo. Però, seduto all'ultima fila, in poltrona, assaporavo il gusto di trovare la solitudine, senza averla cercata. Il piacere di considerarsi prescindibile dal contatto umano, e la felicità di prendersi una vacanza dal collettivo".

Era opprimente?
"Era un obbligo, quello del collettivo, che non mi corrispondeva molto. Però, gli anni prima e dopo il sessantotto sono stati il punto più alto della visionarietà quotidiana. Tutto era spettacolare: il calcio dell'Olanda di Cruijff, la musica di Jimi Hendrix, il cinema, anche il bianco e nero della televisione".

Ricorda gli anni prima della televisione?
"Fino a quando non ebbi dodici anni, a casa mia la televisione non c'era. Andavo a casa di amici a guardare Ivanhoe e altri sceneggiati. La televisione non è fatta per ricordare: è fatta per dimenticare meglio".

Dimenticare cosa?
"Che siamo dei replicanti, che facciamo cose che sono state già fatte. Nulla in televisione va in onda per la prima volta. Nemmeno durante la diretta, il mito centrale del farsi della televisione. Tutto è già stato visto".

Il cinema è diverso?
"Godard diceva che 'il cinema è il cinema, la televisione è la televisione'. Io direi, invece, che 'il cinema è il cinema, e la televisione non è niente'. È un'icona di una situazione che sembra in movimento e invece è ferma, bloccata in un eterno ritorno. Quando sei davanti allo schermo, vorresti toccare, sentire le persone. Invece, entri in contatto solo con la tua solitudine. E, in questa indifferenza, c'è la verità della televisione".

Perché la guardiamo allora?
"Il bambino di un aforisma di Chamford, alla madre che gli chiede quanta marmellata vuole, risponde: 'Troppa'. Anche la televisione si muove in questa assenza del limite, in un territorio in cui il desiderio è allo stesso tempo eccessivo e cedevole. La televisione può regalare un immortalità soft e aiutare a comporre un grande museo dell'umanità, un archivio delle facce degli uomini, poiché tutto passa dentro di essa e tutto può essere cercato, come in un immenso Chi l'ha visto?".

Il nostro, però, sembra più il tempo dei reality.
"L'accusa dei democratici occidentali è che i Grande fratello abbiano scritto un elogio della mediocrità, spettacolarizzando il non sapere niente e incitando al fannullismo, Eppure, in questi programmi ci troviamo di fronte all'avanguardia di un'utopia, l'utopia della liberazione dal lavoro. Come dire: "Grande fratello di tutto il mondo, unitevi!". Il non essere più occupati da un lavoro non non è una maledizione: potrebbe essere una conquista".

Una società fondata sullo spettacolo?
"La società dello spettacolo è solo una piccola crosticina della vera natura della società in cui viviamo, che è la società della registrazione. Dalla fine dell'Ottocento a oggi, l'uomo non ha fatto altro che registrare: ha registrato i propri sogni attraverso la psicoanalisi, grazie ai raggi x ha registrato la struttura del suo corpo e di ciò che c'era dentro, ha registrato i suoni, ha registrato le immagini, in un immenso movimento teso a fermare ogni cosa".

Se guarda il futuro, cosa vede?
"Vedo un presente che è stato rinviato, poiché in ogni tempo l'uomo rimanda il futuro".

A cosa pensa?
"A cosa fece la Kodak anni fa, quando bloccò le ricerche sulle fotografie spaziali per poter smaltire le scorte di prodotti che aveva già in magazzino. La logica del mercato sviluppa e allo stesso tempo rallenta lo sviluppo. Arriviamo anni dopo a qualcosa a cui avremmo potuto arrivare dieci anni prima. Si sprecano delle possibilità di ricerca, dunque di futuro, per non sprecare merce già prodotta. Ma qual è lo spreco più grande?"

Dipende dallo sguardo.
"Lo sguardo è il principio di ogni menzogna".

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