6 nov 2017

I padroni delle "mostre"

I padroni delle "mostre": "Sarebbe interessante, e soprattutto utile, risalire al momento iniziale che ha fatto di un prezioso istituto culturale come quello delle “mostre temporanee”, che era appunto un mezzo di studio e di bilancio del lavoro fatto su un artista o un’epoca ovvero un genere artistico, uno strumento di consenso e di consumo per le masse. È questo, in sostanza, uno dei limiti principali del pamphlet di Tomaso Montanari e Vincenzo Trione Contro le mostre: senza individuare un periodo e un momento preciso da cui cominciare non ci può dire nemmeno come e perché il fenomeno è degenerato fino agli eccessi dell’industria culturale di oggi, dove ogni cosa è trattata alla stregua di un bene di consumo.

Il libro è una diagnosi dell’esistente, ma non spiega come siamo arrivati a questo. Bisogna decidere come classificare questo pamphlet edito da Einaudi. Leggendo mi sono venute in mente due definizioni, ma poi ho avuto il sospetto che siano intercambiabili: “Librocandidatura” ovvero “Mozzarella Blu” (ricordate il batterio che azzurrava uno dei latticini più diffusi nelle nostre case? Non era tossico, ma poneva una questione di psicologia alimentare: lo mangio o non lo mangio, mi fido o non mi fido?). Nel nostro caso, parliamo di anticorpi critici. Marc Fumaroli, senza aspettare che Montanari e Trione finissero l’università e mettessero a punto il loro pensiero critico in materia di mostre, nel 1993 pubblicò un pamph-let contro Lo Stato culturale nel quale criticava senza peli sulla lingua l’intervento pubblico a favore di una cultura artistica strumentale al consenso politico e a discapito della tutela del patrimonio.

Quando è cominciata la deriva del “mostrificio” contemporaneo? Il saggio di Fumaroli veniva al termine di una lunga gestione del Ministero della Cultura francese da parte di Jack Lang, che sotto i due mandati presidenziali di François Mitterrand aveva incarnato un modello di intervento pubblico nella cultura come mezzo di propaganda e di consenso politico (erano gli anni che precedevano il bicentenario dell’89, poi celebrato con la solita Grandeur): le mostre erano parte della strategia politica del nuovo imperatore che commissionò edifici museali, musicali, scientifici, biblioteche e luoghi della moda, cambiando il volto di Parigi in pochi anni. Lang però arrivava tardi: dalla metà degli anni Settanta l’architetto Renato Nicolini, assessore della Capitale, aveva inaugurato le “Estati romane”, osannate e criticate come espressione dell’effimero. Nicolini, uomo colto e pop al tempo stesso, giocò la carta subdola della cultura per “divertire il popolo” (o le masse, se volete). Fu emulato dalle amministrazioni comunali italiane grandi e piccole che cominciarono a spendere un sacco di soldi per l’effimero, ovvero per ciò che accade e passa pur lasciando un segno nella memoria della gente: mostre, concerti, kermesse culturali, teatrali, cinematografiche.

Fu solo l’inizio di un percorso che ci portò in eredità l’epigono di Nicolini, Walter Veltroni, cultore di cinema e artefice della svolta maggioritaria del pd. Da vicepresidente del Consiglio con delega al Mibac, Veltroni introdusse anche la seconda estrazione del Lotto a sostegno della tutela del patrimonio e coniò la prosaica metafora del Belpaese come giacimento petrolifero: i beni artistici sono il nostro oro nero, disse. Dopo Veltroni la linea texana dell’“arte come petrolio” ha prevalso fino a generare il cataclisma turistico attuale che dissemina scorie d’ogni genere nel Belpaese. Che volete che sia, se porta economia e ricchezza... È la politica che lo vuole, chiaro: il Mibac, infatti, è diventato col governo Letta il Mibact. Si è aggiunta, nelle competenze del ministero, quella “t” implicita nel paradigma petrolifero di Veltroni: il turismo.

Torniamo al libro di Montanari e Trione. Più che un pamphlet è un manifesto- candidatura al posto di ministro Mibact dopo le prossime elezioni. Ecco l’ipoteca posta da Montanari, nemmeno troppo velatamente, su quella poltrona: «Checché ne dica il ministro demagogo di turno, questo processo non ha nulla a che fare con la democratizzazione della cultura». Lasciamo stare quando gli autori entrano in questioni come il diritto alla bellezza, l’arte gratuita, l’arte senza nome (quella di chi ha raggiunto il successo senza mostrare la propria carta d’identità, come, pensate un po’, Elena Ferrante e lo street artist Bansky). Il peggio viene quando giudicano in positivo. Qualche mese fa, in piena sindrome migranti, l’artista cinese Ai Weiwei sistemò «sulle facciate di Palazzo Strozzi un’installazione di straordinaria efficacia, che ne rispetta l’architettura rinascimentale» (!?). A parte le valutazioni sul talento del dissidente cinese più attivo sulla scena internazionale (non proprio un recluso), fu una delle più furbesche e brutte installazioni mai viste: aveva tappezzato le facciate del palazzo con una fila di gommoni. Perché non scherzare un po’ allora sull’installazione di Christo, che lo scorso anno portò migliaia di visitatori a camminare sulle acque del lago d’Iseo: dato il nome dell’artista, non fu anche quello un vero miracolo?... Economico, beninteso. " SEGUE >>>

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